[presto arriveranno anche le altre foto, ma qui sono con un modem 56k]
I primi giorni in Val d’Aosta sono nell’incertezza: il tempo è brutto e non si sa se troveremo una guida. Ma le previsioni per venerdì sembrano positive, e decidiamo quindi di provarci.Mercoledì arriva il secondo ok: abbiamo la guida per salire: è uno di Gimillan, il nostro paesino, un quasi amico di famiglia di nome Elmo [Helm Mandimartello?]
Un’ora e mezza di agile salita senza soste ci porta al rifugio Chabod a 2700m [l’ultima casa accogliente], dove possiamo cenare e riposare preparandoci per il giorno dopo.
La notte trascorre nell’insonnia, conciliata dall’assai rumoroso russare degli altri, dal caldo (!) e dalla luce che filtra da fuori. Ho provato a contare le pecore, ma erano indisciplinate e alla minima distrazione saltavano la staccionata a gruppi invece che singolarmente; alla fine ho trascorso la maggior parte della notte pensando: pensieri immediati quali l’ascesa di domani o a cosa fare a chi russa, e più remoti fra cui due persone a una delle quali dovrei forse pensare meno.
[Lassù sui monti, fumidi e gelati (...) prima che sorga il sol dobbiamo andare]Sveglia alle quattro del mattino, poi una lauta colazione con pane, burro, marmellata, the e un caffè assai più cattivo di quello SNS, ci si veste pesantemente e alle 4:45 si parte alla luce della luna (e delle lanterne da testa, non necessarie); saliamo per sentieri e morene fino alle cinque e mezza, quando la neve prende il posto delle pietre, e l’oscurità cede a una diffusa luce “crepuscolare” (come dopo il tramonto).
Alle sei del mattino la neve inizia ad essere veramente in pendenza, mettiamo i ramponi e formiamo la cordata: in testa la guida, nel mezzo io, a chiudere mio fratello; inizia a soffiare un forte vento freddo, che ci accompagnerà per il resto della mattinata, e la cima è coperta dalle nubi. Per chi non c’è mai stato, il paesaggio è suggestivo; rupi innevate, buchi, pareti di ghiaccio (lontani dal sentiero); simile ad alcune scene della Marcia dei Pinguini, per fortuna con assai meno freddo, ma purtroppo non orizzontale.
Pesantemente coperti (canottiera pesante, maglietta, tre pile, giacca a vento, calzamaglia, …), avanziamo con pazienza e senza troppi problemi sulla neve compatta, con le mani quasi sempre nelle tasche per il freddo.
Quando manca un’oretta scarsa dalla vetta entriamo nella nebbia; ci si vede assai poco ma possiamo seguire la guida che conosce bene la strada (la percorre una decina di volte all’anno da 20-30 anni), e le altre comitive.
Finalmente poco dopo le otto di mattina, tre ore e mezza da quando abbiamo lasciato il rifugio, dalla nebbia compare la vetta; proviamo anche guardare al di là della cresta, nella valle di Cogne, ma non si vede nulla, siamo dentro una nuvola.
Gli ultimi metri dalla vetta, di traverso su un ripido pendio, sono affollatissimi: gruppi che vanno, che tornano, che si fermano ad aspettare amici rimasti indietro o che si attardano a fare foto; si sentono voci in francese, in inglese, e poi aguzzando l’orecchio arriva l’inevitabile “ara baixem poc a poc” a cui replico “alla, aquests parlen català” (qui e oltre possono esserci seri orrori d’ortografia e grammatica), e si intreccia una breve conversazione (“som per tota reu; de fet som una plaga” / “d’on sou?” / “de Barcelona i de Terrassa; i tu, no ets català, oi ?” / “no, però tenibo una novia de Terrassa”). Per i Pisani, qualche chiarimento ulteriore: più o meno ovunque si trovano dei Catalani, quando meno te l’aspetti, sono 6 milioni ma viaggiano molto; trovare cima al Gran Paradiso alcuni che vengono proprio dalla cittadina da cui viene Estel, che conta solo 300 mila abitanti, sembra assurdo (ma del resto ne abbiamo già trovati a pasqua su un bus turistico sull’Etna, nella fila di posti dietro alla nostra).
Ci fermiamo solo pochi istanti in vetta, a fare un paio di foto in cui si vede quasi solo la nebbia, e poi si torna rapidamente giù; nella discesa finalmente si vede il sole, e ora che la vetta è stata conquistata poco ci cale del vento [“e se ne infischia, se ne infischia, se il mare infuria e il vento fischia”], e nei brevi momenti di sereno riesco persino a fare un po’ di fotografie; presto finisce il ghiacciaio, ci alleggeriamo dell’attrezzatura (che finisce nello zaino) e alle undici del mattino siamo già al rifugio Vittorio Emanuele. Riposiamo fino a mezzogiorno, una pastasciutta al rifugio (cottura paragonabile con la mensa SNS) e scendiamo rapidamente verso valle, anche se riesco a strappare qualche minuto per fotografare un po’ di flora alpina.
In conclusione, una bella camminata e una bella soddisfazione, anche se con il cielo sereno sarebbe stato meglio (e magari con dei guanti più caldi).
Dopo aver chiacchierato con la guida nel ritorno, aggiungo ai progetti per l’anno prossimo un giro sul Monte Rosa (un’altra bella montagna, e senza difficoltà tecniche), assieme a quello di finire una maratona (Roma? Pisa?).
L’ultima foto che troverete quando avrò il tempo di metterle sul web è quella delle piccozze, molto scenografiche e che sono state completamente inutili: sono rimaste sempre legate allo zaino.
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